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Il petrolio è dell’Eni, ma quanto costa alla nostra Difesa?

Il Governo italiano non sa dire quanto costi ai cittadini la difesa militare delle piattaforme petrolifere private in mare aperto. L’ha ammesso il sottosegretario di Stato alla Difesa Domenico Rossi rispondendo ad una interrogazione del 31 marzo del Movimento 5 Stelle.
Incredibile ma vero. Il ministero della Difesa non è in grado di fornire una cifra reale perché questo tipo di attività – dicono – fanno parte dell’operazione “Mare Sicuro” e quindi i costi sono mescolati all’interno di un’unica voce di bilancio.

Ancora più stravagante, tuttavia, è la risposta messa nero su bianco dal rappresentante del governo il 14 settembre. Perché ammette che “Mare Sicuro” serve a garantire la protezione dei mezzi statali e di quelli impegnati nelle attività di ricerca e soccorso in mare (tra cui gli indispensabili e preziosi salvataggi dei migranti), oltre naturalmente alle attività di contrasto ai traffici illeciti e quelle antiterroristiche. Riservando quindi alle installazioni off-shore in concessione e gestite dall’ENI solo una generica “eventuale protezione”.

Ma non è in grado di dire quanto costi la protezione, né tantomeno quante risorse in termini di tempo e uomini vengano impiegate per garantire la sicurezza delle piattaforme gestite da una multinazionale dell’energia. Chi decide quanto tempo i nostri militari devono dedicare a queste attività di scopo privato? Non si sa.
L’unica informazione quasi dettagliata fornita da Rossi è che gli impianti da sorvegliare sono quattro, dislocati nell’area marittima di 160.000 km quadrati sotto controllo dei nostri militari.

Salta invece agli occhi una spregiudicata e indifferente mancanza di trasparenza sull’utilizzo di risorse pubbliche per la fornitura gratuita di un prezioso servizio a una mega azienda privata.

Ma qui entra in gioco un’altra questione, decisamente più calda: ovvero la tutela degli interessi delle grandi multinazionali come l’Eni che traggono profitti dalle attività estrattive dentro e fuori i confini italiani. Il gas e il petrolio – non è un mistero – attirano l’attenzione di numerosi gruppi terroristici, col rischio di pericolosi attentati causa di morte e distruzione di vite umane e di habitat naturali preziosi. In questo contesto l’acuirsi della crisi libica mette seriamente a repentaglio le attività di estrazione, su cui insiste la nostra sorveglianza. Naturalmente in ballo non c’è solo la sicurezza degli impianti nel Mediterraneo. I costi infatti aumentano a dismisura se pensiamo a tutte le missioni militari estere in cui l’Italia è impegnata. Perché ognuna di quelle missioni, mascherate dalla definizione “umanitarie”, sono di fatto strategiche per la diesa dei nostri interessi interni e anche delle profitti delle grandi multinazionali dell’energia.

Ecco perché diventa fondamentale e doveroso fornire dati precisi su queste operazioni, anche per misurare con cognizione di causa il vantaggio di un modello energetico su un altro. In questo caso, un sistema produttivo basato sulle fonti rinnovabili garantirebbe maggiore sicurezza all’Italia in termini militari, rafforzando soprattutto la nostra indipendenza energetica e quindi la nostra economia, mettendoci contemporaneamente al riparo dalle forzature dei numerosi interventi militari all’estero.

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